Cantina, Fabbrica e deposito di vino

«Ognuno ha il suo proprio dono da Dio; chi uno, chi un altro», ed è per ciò che stabiliamo con una certa perplessità la misura del vitto altrui. Nondimeno, avendo considerazione della debolezza dei più bisognosi, crediamo che basti per ciascuno un’emìna (¹) di vino al giorno. Quelli poi a cui Dio concede di sapersene astenere, siano convinti che ne riceveranno una particolare ricompensa.

Se poi la condizione del luogo o il lavoro speciale o il calore dell’estate richiedesse un supplemento, il superiore abbia facoltà di darlo, ma vigili attentamente perché nessuno giunga alla sazietà o all’ubriachezza.

Leggiamo (²), è vero, che il vino non è per i monaci: ma poiché ai monaci dei tempi nostri ciò non si può far comprendere, conveniamo almeno in questo, di non bere fino alla sazietà, ma moderatamente, perché il vino fa traviare anche i saggi.

Quando poi le condizioni del luogo son tali che non si possa trovare neppure la suddetta misura, ma se ne trovi molto di meno o addirittura nulla, benedicano Dio i monaci che vi abitano, e non mormorino: di questo soprattutto li ammoniamo, che si tengano lontani da ogni mormorazione.

Le monache che hanno l’incarico dei lavori della Cantina lo svolgono ogni anno nel mese di ottobre, e non avendo la vigna propria comprano l’uva.

(¹) L’emìna romana valeva circa un quarto di litro: ma qualche commentatore calcola che la misura di S. Benedetto doveva essere superiore. Secondo l’uso al vino si mesceva l’acqua.
(²) Nelle Vitae Patrum